La Resurrezione di Cristo di Raffaello e il metalinguaggio della cultura

Per il cinquecentesimo anno dalla scomparsa diRaffaello Sanzio (Urbino, 28 marzo o 6 aprile 1483 – Roma, 6 aprile 1520) e per le feste pasquali in corso parlerò di una sua opera giovanile, la Resurrezione di Cristo (1501-1502) che si trova oltreoceano, nel Museo d’Arte di S. Paolo in Brasile. Essendo un piccolo dipinto (52×44 cm)  ad olio su tavola,   dai colori luminosi e brillanti come le miniature, probabilmente era  per una predella nella parte inferiore di una pala d’altare, o un piccolo formato per un regalo: infatti, sul retro, ha una scritta che porta il nome di un importante personaggio di Siena, Gioacchino Mignatelli.

Ispirato alla “Resurrezione di San Francesco al Prato” del Perugino, ha in alto al centro, con l’indice all’insù, il Cristo risorto che regge un vessillo crociato, con a fianco due angeli e sotto le guardie sgomente dell’accaduto. Sempre al centro ma in basso, un prezioso sarcofago appena aperto che ha dietro le tre Marie, accorse per il miracolo, in uno scenario di brulla natura con appena un albero, e in basso a sinistra un serpente come schiacciato dal sensazionale avvenimento.

La Resurrezione di Cristo

Opera che denota quanto ancora Raffaello sia legato alle influenze del Perugino e del suo periodo di apprendistato, che ben presto stravolgerà con una nuova visione della pittura, quella rinascimentale, che lo immortalerà per sempre. L’effetto visivo è di una simbologia didascalica fatta di figure sospese nel vuoto o in volo su un sarcofago dalla forma improbabile con decorazioni classiche.  La sensazione irreale, quasi fiabesca, del quadro è talmente esplicita che non lascia dubbi di giudizio allo spettatore, che sa di avere a che fare con un miracolo da accettare per fede, secondo una concezione religiosa che qui apprende non da un sacerdote ma da Raffaello, quando era un giovane pittore, ancora in via di maturazione artistica.

Trovandosi  lontano, in Sudamerica, fisicamente distante dalle attenzioni del pubblico occidentale, il quadro è abbastanza sconosciuto. Nonostante tutto, lo reputo emblematico di alcune contraddizioni che sono nella nostra cultura religiosa e artistica.

Nella Resurrezione di Cristo di Raffaello  grande assente è il Santo Sepolcro che sta nella Basilica a

Gerusalemme.

L’aspetto meno considerato è che tutti i pittori, compreso Raffaello che in questo caso funge da esempio, non hanno mai potuto vedere tale sito e i dipinti che abbiamo sono tutti immaginari. Una cultura religiosa e anche artistica tutta fantasiosa sia pur giustificata da motivazioni spirituali,  costruita su astratte suggestioni mentali con scenari prevalentemente di natura Umbra Toscana, quando sono italiani o più assurdi con scenari nord europei quando sono artisti di quei luoghi, mai che vengano ritratti i luoghi originari.

Santo Sepolcro, Edicola.

La forma attuale del Santo Sepolcro risale all’Ottocento: prima vi è stato un continuo di distruzioni e ricostruzioni alternate con incendi e terremoti. I crociati conquistarono Gerusalemme nel 1099 e la tennero fino al 1187  come occupazione militare, niente a che vedere con la cultura.  Dopo tanti miseri tentativi di costruzioni nel 1187 s’incominciò un’edificazione vera e propria del Santo Sepolcro che però non è mai comparsa nelle raffigurazioni artistiche, non la conosciamo. Insomma alla narrazione evangelica,  cui credi solo se hai fede, se ne è aggiunta una virtuale di tipo estetico che ha costituito l’immaginario escatologico e l’iconografia religiosa tradizionale.  A giustificazione di questo potrebbe essere che Gerusalemme è sempre stata difficile da raggiungere, a causa del clima di terrore che  è stato un ostacolo invalicabile ai pellegrinaggi sino a tempi non molto lontani.

Tanto per avere un’idea della situazione del Mediterraneo (e c’erano state le repubbliche marinare …) nel 1815 a Cagliari, non in quei villaggi isolati dove era facile fare razzie, furono presi 125 sardi e fatti schiavi. Fu Edward Pellew, capo di una flotta anglo-olandese contro gli stati barbareschi, che fece interrompere il fenomeno, anche se non completamente, con il bombardamento navale di Algeri del 1816,  liberando 1200 schiavi cristiani presenti in città. E pensare che già gli Ottomani erano impegnati a interrompere la riduzione in schiavitù dei prigionieri nel trattato di Vienna del 1815! Se questo era il clima poco più di un secolo fa, figuriamoci ai tempi di Raffaello; basta pensare che la battaglia di Lepanto, fatta per arginare l’invasione turca dell’Europa è del 1571, meno settanta anni dopo che Raffaello ultimò la Resurrezione di Cristo.  La battaglia di Vienna è del 1683, più di un secolo e mezzo dopo l’assedio del  1529, che avveniva 28 anni dopo che Raffaello  dipingeva la Resurrezione di Cristo.

In verità l’ Europa fu sotto schiaffo dei Turchi per mille anni circa, dall’800 al 1800, quanto durarono le incursioni saracene.

Con le invasioni barbariche provenienti dal nord Africa, nel 693, iniziamo a conoscere questi popoli che chiameremo Saraceni, ma genericamente questo termine indica diversi popoli della suddetta area di provenienza sino a comprendere in un caso anche i Persiani. La situazione iniziò a prendere pianta stabile dopo che i mussulmani (Maometto morì nel 632) attraversarono lo stretto di Gibilterra nel 711 e sbaragliando i Visigoti si stabilirono in Spagna; in seguito, presero Marsiglia nel 838 e   intorno all’890 Frassineto in Provenza vicino a Saint Tropez, spingendosi oltre; la Moriana, la valle che sta a ridosso delle Alpi sull’attuale versante francese, ha questo nome perché era territorio dei Mori. Da quest’avamposto, compresa la Sardegna, essi colpivano molte città costiere, giungendo fino ad Albenga, Genova, Pisa e all’interno  Torino e in Svizzera fino a Coira. Sistematici erano i feroci massacri, i cospicui bottini e la cattura di molti prigionieri, rivenduti come schiavi o liberati dietro pagamento di lauti riscatti; i bambini maschi subivano la castrazione: nove su dieci morivano per le conseguenti infezioni e uno su dieci sarebbe stato convertito all’ Islam e addestrato a combattere come eunuco.  Dopo molte incursioni iniziate nel 600 fu conquistata Pantelleria nel 700 e la Sicilia nell’827; dominio terminato nel 1072 da parte dei Normanni, ma, anche se sottomessi, i musulmani rimasero nell’isola fino al 1200. Lo stesso avveniva da est, dove Bari e Taranto erano loro basi fisse, ma specie dopo la presa di Costantinopoli da parte dei Turchi Ottomani e la fine dell’Impero Romano d’Oriente, 1453, cioè 48 anni prima della Resurrezione di Cristo di Raffaello, le incursioni erano sempre più consuete. Tuttora si vedono nelle coste del Mediterraneo le torri o castelli di avvistamento chiamate per l’appunto torri saracene.

A quei tempi quei luoghi, detti Terra Santa o Luoghi Santi, erano, per  la fantasia dei fedeli europei, come Star Trek oggi per noi, pianeti lontani abitati da mostri alieni. In una condizione infernale dipingevano ambienti paradisiaci, Raffaello, come tanti altri artisti a lui successivi, ha dipinto il sepolcro o altri luoghi sacri inventando tutto di sana pianta, creando quadri sulla Resurrezione di Cristo adattando il paesaggio italiano a fantasiose architetture che non hanno niente a che vedere con la Basilica del Santo Sepolcro a Betlemme e nemmeno con il Medio Oriente. Se le pitture sacre avessero avuto riscontro documentale, avrebbero spaventato i fedeli fino a farli fuggire, perché si sarebbero riconosciuti nei quadri i loro nemici di sempre: quelli che abitavano quelle terre definite Sante ma da dove venivano i Saraceni. Com’è altrettanto vero, e questo è strano, che da quando è stato possibile il pellegrinaggio non vediamo foto famose del Santo Sepolcro, anche se molte sono in giro, foto o cartoline che ricordiamo come emblema di Gerusalemme o della cristianità, parliamo di una civiltà che ha nella comunicazione la quantità d’immagini che supera quella della scrittura.

Insomma, abbiamo una religione e una meta arte con tanto di esperti critici e storici, pinacoteche e biblioteche che dicono tantissimo ma che ti mettono a dura prova se devi individuare visivamente un luogo della cristianità e che viceversa sono assediate da immagini consumistiche di uova di cioccolato e gustose colombe zuccherate. Vacua pubblicità a identità della nostra cultura che vanta trascorsi illuministi, positivisti, marxisti ecc.

Come per il paradosso su Achille e la tartaruga di Zenone, ogni anno, procedendo nelle rappresentazioni della Resurrezione, in tanti secoli abbiamo avuto una religione che a fronte di una sterminata produzione artistica non è riuscita a affermare l’immagine reale, originaria delle proprie radici della cristianità: una meta che sembra essere sempre più lontana anzi, con la decadenza delle simbologie è ormai irraggiungibile.

Arte artefatta che preziosa si ammira.

Giovanni  Lauricella

Se Erdogan è entrato a gamba tesa in Libia non è un caso, il motivo è che vuole la rivincita della Turchia su una cocente sconfitta subita dalle truppe italiane nel 1911-1912. Furono battaglie in cui i turchi ebbero gravi perdite in terra e in mare. Uno scontro che non fu solo circoscritto alla Libia ma arrivò anche vicino le coste turche che dettero vittorie con le conseguenti annessioni all’Italia delle isole del Dodecaneso. Una guerra contro i turchi che ebbe strascichi fino al ’34, anno in cui vennero conquistate altre regioni della Cirenaica.

Guerra Italo-Turca 1911 (presa da Wikipedia dove potrete avere gli approfondimenti)

Guerra che decise l’entrata nella prima guerra mondiale, i tedeschi erano alleati della Turchia, compreso la seconda guerra mondiale. Infatti l’occupazione della Libia era in contrasto con un equilibrio del mediterraneo deciso prevalentemente da Francia e Inghilterra. Per approfondimenti cliccare su Wikipedia e avrete gli approfondimenti sulla Guerra italo-turca. Interessante è anche questo articolo sempre sullo stesso argomento di Antonio Martino sull’Intellettuale dissidente

Anche se furono episodi bellici di cento anni fa circa pare che non sono stati dimenticati dai turchi che dagli inizi del ‘900 soffrono di una mancata sovranità sul mediterraneo, un desiderio di supremazia internazionale frustrato che oggi vede in Erdogan un possibile riscattatore, situazione molto sottovalutata dalle politiche estere internazionali e soprattutto da quella italiana che sembra non sapere da che passato veniamo, nemmeno i pacifisti, di solito molto attenti, sembrano distratti.

Impero Ottomano 1683 (presa da Wikipedia)

a cura di di Giuseppe Garrera, József Készman, Viktória Popovics e Sebastiano Triulzi. 4 ottobre 2019 – 6 gennaio 2020 Palazzo delle Esposizioni Roma

Artisti molto creativi e desiderosi di libertà, per contingenze storiche avverse, sovente si trovano a operare in un paese opposto alle loro pretese, in uno scenario deprimente come quello che viene riproposto nella mostra “Tecniche d’evasione, Strategie sovversive e derisione del potere nell’avanguardia ungherese degli anni ’60-’70”, al Palazzo delle Esposizioni dal 4 ottobre 2019 al 6 gennaio 2020.

Sono visibili oltre 90 opere dal Museo Ludwig arte contemporanea di Budapest: prevalentemente foto, ma anche collage, sculture, mail art, poesia visiva, libri di artista e video di interventi urbani, operazioni concettuali, performance, con la cura di Giuseppe Garrera, József Készman, Viktória Popovics e Sebastiano Triulzi. Mostra promossa da Roma Capitale – Assessorato alla Crescita culturale, Azienda Speciale Palaexpo, National Cultural Fund of Hungary, organizzata da Azienda Speciale Palaexpo, Ludwig Museum–Museum of Contemporaryart of Budapest, Accademia d’Ungheria in Roma. Come dicevo, prevalentemente foto, alcune delle quali propriamente artistiche e altre di carattere documentale, perché testimonianze di momenti ed eventi che non dovevano esistere, in quanto vietati dalla polizia, che però oggi, grazie al museo Ludwing ed a generosi collezionisti, abbiamo la fortuna di vedere a dispetto di quello che si dice dell’orientamento politico dell’attuale governo.

Endre Tót, Judit Kele, Sándor Pinczehelyi, Bálint Szombathy, András Baranyay, Tibor Csiky, Katalin Ladik, László Lakner, Dóra Maurer sono alcuni degli artisti ungheresi che, come dice molto eloquentemente il titolo della mostra, sono riusciti a eludere i controlli polizieschi per realizzare le loro opere di protesta: se volete, proprio il fascino del proibito espresso in inapparenti denunce di uno stato d’oppressione. Strano è poi constatare che lo stesso fenomeno è avvenuto anche qui in Italia e nell’ Occidente, come se la libertà venisse negata alla stessa maniera. Insomma apparirebbe chiaro, se si volessero fare confronti, che solo da una parte della cortina di ferro non c’era la libertà e che molti artisti si sono offerti non per fare arte ma strumentale propaganda politica. Effettivamente mentre da una parte si faceva più che altro un teatro che denunciava un male di cui nessuno ha pagato le conseguenze, dall’altra parte c’erano realmente la censura, i gulag, le uccisioni ecc., ovvero quelle pericolose persecuzioni che hanno causato migliaia di vittime effettive. Migliaia furono i morti e i feriti e le incarcerazioni nei 17 giorni della rivolta antisovietica del 1956. Così, come nel caso del movimento d’avanguardia in Ungheria, la dissidenza clandestina era l’unica cosa possibile oltre ovviamente la fuga in Occidente. Non sono atti espliciti, come viceversa si sono visti qui da noi quando i nostri artisti facevano azioni militanti e di partito con tanto di tessera ostentata e mettevano alla berlina gli USA per la guerra del Vietnam, ma azioni artistiche solo apparentemente innocue, il cui significato politico era da decifrare, da capire, ed effettivamente veniva capita da chi tra il pubblico era più attento e forse un potenziale dissidente. Un’arte che ha al suo interno un lato nascosto. Artisti che, per sopravvivere in uno stato ostile, con astuzia hanno realizzato opere che potevano eludere i controlli e non cadere sotto la repressione poliziesca. Artisti ungheresi che volevano ma non potevano essere al passo con l’avanguardia che viveva oltre la cortina di ferro, ma che allo stesso tempo ci provavano come si vede, ad esempio, nella foto giustamente esposta di un barattolo di sugo ungherese che poteva essere quello della Campbell’s soup cans del 1962 di Andy Warhol. Frustrazione di uno sviluppo culturale impedito dalle autorità che si traduceva in arte il cui significato alludeva a un mondo vietato. In sintesi, direi, una mostra scandalosa. Così Bálint Szombathy a Budapest dopo una manifestazione istituzionale del primo maggio, approfittandosi del fatto che finita la manifestazione tutti sogliono pranzare con birra e salsicce, prende un cartello di Lenin abbandonato dai manifestanti e se lo porta a spasso per le strade della città. Niente di speciale, mi direte, ma così facendo mostra se stesso ritratto nel degrado urbano di una città schiacciata dal potere sovietico, confermato dal titolo della foto, “Lenin a Budapest, 1972”. (Scusate la digressione, ma le condizioni attuali che i romani vivono a causa di una mala gestione del comune di Roma sono ben più vistose di quelle di Budapest del ’72). Sándor Pinczehelyi più simbolicamente gioca con falce e martello, componendo con questi attrezzi di ferro dei curiosi se non ridicoli autoritratti come se fosse un pagliaccio in “Sickle and Hammer” del 1973, dove ovviamente non prende in giro se stesso ma il regime che usa tale simbolo. Così pure Gabor Attalai in “Negative star” del 1970-71 prende a soggetto la stella simbolo del partito per comporre giochi formali che esulano da quello che effettivamente e drammaticamente rappresenta. Altri artisti e artiste fanno uso provocatorio della nudità corporea, altri di scritte sui muri o sulla neve, vengono usate persino azioni casalinghe nel giardino dietro casa, insomma tutto quello che l’ingegno riesce a produrre nella disperazione di una condizione impossibile da sostenere. Volendo fare paragoni, pensiamo alla campagna fatta in Occidente dall’arte militante che, per distogliere l’attenzione di quello che veniva fatto a Oriente, denunciavano oltre misura il male del capitalismo atteggiandosi a martiri. La prova sta nel fatto che noi conosciamo oggi l’arte di oltre cortina a trenta anni dalla fine del muro di Berlino avvenuta nel 1989 e dall’inutile apertura del dossier Mitrokhin che finì insabbiato sotto la commissione di Paolo Guzzanti. Quello che è avvienuto oltre cortina era ben altro che il vittimismo degli artisti nostrani che godono di cattedre nelle accademie che non frequentano, di valutazioni stratosferiche delle loro opere in importanti musei o in prestigiose gallerie, che prendono consistenti cachet ogni qual volta appaiono in conferenze o in serate mondane. Basti pensare che Gianfranco Baruchello, grande artista che vanta di essere stato un perseguitato, si ritrova una fondazione nel quartiere romano di Monteverde e una tenuta Agricola Cornelia S.p.A. alle porte di Roma nord di oltre mille metri quadri (non è facile rintracciare l’effettiva estensione). Detto questo, l’arte d’avanguardia italiana resta comunque ai vertici mondiali. Come a voler proseguire su un altro piano il percorso della recente storia tracciato ultimamente dalle mostre Party Politics di Francesco Vezzoli alla Galleria Giuliani ed Arte e regimi 1960-1990 alla galleria Mascherino, queste Tecniche d’evasione al Palazzo delle Esposizioni vanno a completare il quadro di come possa la politica influenzare l’arte. E’ indubbio il fatto che essere in uno stato democratico pluralista è cosa molto differente dal vivere in quegli stati totalitari dove la democrazia è negata totalmente. Ci tengo molto a dirlo perché oggi viviamo un’atmosfera di auto colpevolezza surreale alla “Greta”, dove pare che stiamo nel peggior posto del mondo. Anche se mi riconosco nelle critiche ai sistemi democratici, nei valori ambientalisti e ho le stesse premure per la salvaguardia del pianeta, mi preme ricordare che le democrazie al mondo sono molto poche e deboli, precarie e decadenti, tutte concentrate nell’emisfero occidentale, mentre il resto, cioè quasi tutto il pianeta, è sotto regimi autoritari corrotti, sanguinari e bellicosi, molti addirittura tribali, che sono causa del divario economico e dell’enorme sofferenza sociale della maggioranza degli abitanti del mondo. L’Ungheria, che è stata tra i centri della cultura mitteleuropea, ha fortunatamente potuto affrancarsi e reagire al peso di una coercizione dispotica quale è stata l’appartenenza al blocco sovietico, ma che dire di tutto il resto del mondo?

Giovanni Lauricella

LA VILLA POSTUMANA COME ECOSISTEMA è la proposta di maggior successo presentata alla Biennale d’architettura di Venezia

che ha avuto a supporto grandi discorsi molto aleatori ma che solo in questo caso col renderig della villa Postumana di Mario Coppola, Leonardo Caffo, Arup Italia ha suscitato un dibattito più concreto.

C’è tanto di manifesto dell’Ecosistema studio per chi vuole approfondire l’argomento, ma secondo me non è tutto li il problema, è solo una parte,

una villa per qualche eletto, forse per un filantropo ricchissimo come Bill Gates o giù di li, ma gli altri, cioè il problema, tutti quelli che hanno bisogno di un tetto sopra la testa?

Scendendo più nel pratico dobbiamo constatare che siamo di fronte a una dissennata crescita demografica che vede in testa le popolazioni dei paesi del terzo mondo, proprio quelli che hanno più problemi di tutti.

Gente che vuole casa gratis, che non vuole pagare condominio, bollette e che nemmeno si pulisce casa, riducendo gli alloggi a pericolosissime malsane topaie a rischio infezioni e incendi.

Un “life style” che da anni è proprio ormai anche dei paesi avanzati che contano numerose enclave che non sono composte di soli disperati ma anche di settori politicizzati che ne esaltano l’importanza.

Tipiche sono diventate nelle più importanti metropoli occidentali, non nei paesi autoritari orientali, le pareti degli edifici dipinte con improbabili murales dai pupazzi che disturbano la vista.

Rappresentazioni visive invadenti i cui intenti non sono nascosti dagli stessi autori che rivendicano con autorevolezza un ruolo artistico. Insomma chiunque avesse un minimo d’appoggio o anche furtivamente è auto-abilitato a essere artista perché si è preso una parete di un edificio.

Ma la villa di cui dovevamo parlare? Vedetevela nei link che vi ho prima dato, specie con l’evoluzione delle recenti tecnologie un’abitazione green per poche persone si può fare come si vuole specie se sta in campagna come si vede nel rendering.

Con le tecnologie correnti la si può fare ecologica, ecosostenibile, a impatto 0 e anche ben inserita nel paesaggio, basta lasciare tutti quanti fuori, nelle favelas o per strada: questo è il vero problema dell’architettura contemporanea che lascia insoluta l’accessibilità ad avere abitazioni per migliaia di persone con tutti i parametri ecologici rispettati.

Gli ideatori di tale furbata sono l’architetto Mario Coppola di cui potete leggere il ruolo dell’architettura nell’antropocene e il filosofo Leonardo Caffo che ne ha stilato il contenuto.

Se volete approfondire il Postumanesimo andateci pure e ditemi di Robert Pepperell altro professore ideatore della filosofia, l’originale del Postumanesimo e anche dell’omonimo manifesto che propone dubbie ma accattivanti teorie, elucubrazioni intellettuali di uno che si definisce anche artista e se vi capita di guardare i suoi quadri scoprirete che alcuni sono piacevoli.

Film di Tinto Brass con Alberto Sordi, Silvana Mangano, Monica Vitti ecc.

Il disco volante

 DI FRANCESCO CHEINASSO

VIDEOGIOCHI l’arte del 21esimo secolo?

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Da un articolo”Videogiochi l’arte del 21esimo secolo?” di Francesco Cheinesso del 20 giu 2017. Dalla vita ho imparato una lezione, che qualunque cosa può essere fatta bene o fatta male.
Il mondo è diviso in 2: la qualità e il ciarpame.Un screenshot tratto da Hyper light drifter, videogioco indie sviluppato dal team indipendente Heart Machineflickr user PlayStation Europe

Ora, applichiamo ciò al mondo dei videogiochi.
Siamo onesti, quante volte al solo nominare questo termine abbiamo visto facce che sembravano dirci, “ ma cresci un po’ “.
Spesso mi sono chiesto il perché di tutto ciò.
Perché dovremmo vergognarci di ammettere questa passione, perché dovremmo reputare questo hobby infantile?
La risposta sta nell’ignoranza, ovvero nel non conoscere ciò di cui si parla.
A nessuno verrebbe in mente di dire che la scrittura non è arte, ma il che non legittima questo blogpost ad essere elevato a tale livello, idem per cinema, pittura, musica ecc. Ciò perché in tutto esiste il bello e il brutto.Un screenshot tratto da Horizon  zero dawn, videogioco open-world prodotto dal team Guerrilla Gamesflickr – user Mark Molea

Ciò permetterebbe di avere una visione chiara e oggettiva delle opere videoludiche, tuttavia viviamo in una società in cui l’ignoranza in materia viene legittimata.
Mi spiego meglio con un video in cui potete vedere un giornalista parlare a sproposito di un noto videogioco, associandolo ad atti di terrorismo. Attenzione, stiamo parlando di terrorismo! Se fosse successa una cosa del genere in merito ad un film o ad una canzone si sarebbe scatenato il putiferio, invece in questo caso la storia non ha causato alcuno scalpore.
Perché? Semplice, lo stato di beata ignoranza in cui viviamo, che ha portato a ignorare e a dare giudizi senza alcuna conoscenza in merito.Un screenshot tratto da Unravel, videogioco indieplatform sviluppato dal team indipendente ColdWood Interactivesuperlevel

Ma la domanda è, i videogiochi possono essere davvero considerati arte?
In questo articolo viene trattato il concetto di arte nel tempo citando Ian Danskin, un artista freelance statunitense.
Chiara è l’idea dell’artista, il concetto di arte è un concetto multiforma, impossibile da inquadrare nella storia.
Danskin cita il regista Roger Ebert, il quale sostiene che un videogioco non potrà mai essere arte, in quanto si basa sul voler raggiungere un obbiettivo o battere un punteggio.
Dal che nasce un’ idea dell’arte basata sull’adorazione della bellezza fine a se stessa.
Tuttavia Danskin ci da un’altra visione, ovvero che non tutto ciò che viene prodotto dall’uomo è arte, ma tutto può diventarlo, in quanto è l’uomo a stabilire cos’è arte dal momento che essa non è una proprietà intrinseca all’oggetto.
Come potete vedere ci troviamo di fronte a 2 visioni totalmente contrastanti, ma coerenti.Screenshot tratto da Dark souls 3, videogioco souls-like sviluppato dal team From Softwareflickr – user Videogame Photography

Quindi che si fa? In questo caos generale, non posso che dare la mia umile opinione.
Innanzitutto credo che sia sbagliato inquadrare il genere videoludico, che in 40 anni è riuscito a mutare radicalmente, come dimostra Vanessa De Luca.
Al giorno d’oggi i mezzi tecnici permettono di ottenere opere dall’ impatto grafico eccezionale, il che unito a una direzione artistica ispirata e ad una narrazione intensa è in grado di rendere un prodotto di alta qualità, definibile arte.
Questo perché i videogiochi sono in grado di regalare emozioni al videogiocatore e addirittura di commuovere, per questo ho deciso di inserire in tutto il blogpost screenshot di opere che io personalmente ritengo arte per rendere meglio la mia idea.

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Screenshot tratto da Rise of the tomb raider, videogioco adventure sviluppato dal team Crystal Dynamicsflickr – user Stefans02

Dunque non possiamo stabilire ciò che è arte universalmente, Danskin sostiene che essa sia multiforma, ve n’è una oggettiva ritenuta tale da molti e una soggettiva.
Possiamo solamente avere una nostra opinione.

In copertina: immagine rappresentante il videogioco open-world No man’s sky, sviluppato dal team Hello Games, utilizzata durante la campagna pubblicitaria, flickr – user BagoGames

“Sofagate”. Tutti stupiti perché la Von der Leyen è stata trattata come il Corano prescrive, i nostri opinionisti e i politici o meglio dire i maître à penser del corrotto potere che abbiamo capiscono solo quello che al momento gli fa comodo si dica in giro. Erdogan non è Di Maio o Salvini, è una persona molto accorta che dopo lo sventato colpo di stato si è schierato con lo zoccolo duro del suo paese, i fondamentalisti islamici, ma non è solo a loro che ha indirizzato lo sgarbo fatto a Bruxelles ma a tutta la comunità mussulmana europea che è sempre più desiderosa di essere rappresentata da un leader Occidentale di grande statura. Erdogan sa che da tempo a tutta la comunità mussulmana non basta di aver cacciato gli ebrei dalla Francia o avere nell’Inghilterra della brexit il sindaco di Londra Sadiq Khan, questi sono passaggi essenziali quanto solo preliminari, adesso si fa necessaria per il Corano l’Europa unita fondamentalista islamica.

Divano a Londra

bella performance nel centro di Londra di George Clooney

Trovare e poi selezionare alcune tra le più interessanti è un compito difficile, potrei dire che sono le architetture che mi hanno colpito di più e quelle che ritengo di maggior successo.

Si parla tanto delle imbarcazioni a motore record che hanno i super ricchi ma poco si sa di quello che è il più grande di tutti proprio perché bisogna andare troppo indietro nel tempo. Pensate un po, fine ‘800, cioè di quando si sono costruiti le prime navi in ferro con motore. Della SMS Greif, la corvetta del Kaiser si sa ben poco, accontentiamoci di quello che passa Wikipedia.

SMS Greif, l’imbarcazione per le crociere del Kaiser

Navi piene di problemi, specie se viste con l’esperienze maturate nel tempo.

Fu l’ultima vacanza del Kaiser Francesco Giuseppe infatti, fece in tempo a scendere dalla SMS Greif e nel mondo si scatena la 1° Guerra che gli porterà una sconfitta devastante che unita a un armistizio iniquo aprirà le porte al nazismo. Quest’ultimo link è differente da quello di sopra.

Ho trovato foto con piccole differenze che in queste due qui sopra si possono notare. Qui sotto una foto della stessa classe di nave. Pare ne siano state costruite diverse nonostante i problemi che avessero.

SMS Kaiserin Augusta

A volersi fare un’idea abbandoniamoci al presente.

Lamborghini
Interno Lamborghini yacht
due Lamborghini
Yalla, 73m.
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Insomma, vi siete rinfrescati …. le idee?

 

 

Ad ogni svolta della storia ci tocca riscrivere la vicenda precedente.

Eppure resta enigmatica quella che riguarda  la Mitteleuropa. Un termine( affascinante per la sua indeterminatezza, che  sembra atto a comunicare atmosfere decadenti e un sentore nostalgico, mentre cela al suo interno  un nucleo di dolorosa verità, in parte ancora da scoprire. È alle nostre spalle, possiamo sfiorata con i ricordi dei nostri nonni, ma per noi è ormai  inattingibile.

Mitteleuropa, certo, è Vienna, la Sachertorte, gli Strauss dei valzer e Richard Strauss, quello dei Vier Letzte Lieder, le novelle di Schnitzler,  gli spari di Mayerling e quelli di Sarajevo, in una parola tutto il comme il faut della rievocazione d’epoca, su cui gli intellettuali sembrano aver raggiunto il verdetto definitivo: grande stagione della cultura , ma società irreparabilmente corrotta, fine inevitabile.

Ma, una volta emersi dal turbillon del valzer, se scrutiamo le facciate altere dei palazzi di Vienna, Budapest, Praga, che ben si sposano con le luci argentee di quei cieli, e rileggiamo la grande storia di quelle nazioni, che costeggiando il Danubio procedono dalla Selva Nera al Mar Nero, ci accorgiamo che recano una medesima impronta, nonostante i conflitti storici che le hanno viste nemiche. La consapevolezza di un destino comune non è  il sogno di letterati fin de siecle  già  presaghi del tracollo, ma nasce insieme all’Europa moderna, intorno a tre  capisaldi: la fedelta al cristianesimo, la difesa contro i Turchi, l’appartenenza ad un impero. Tutti i popoli  danubiani si sono relazionati con un impero che era anche un sogno, in modi diversi, oscillando tra avversione e nostalgia, e questo impero, comunque si chiamasse, era una derivazione di quello romano, la prima  e indimenticabile forma di impero, quella che ha dato l’impronta a tutte le idee in materia espresse  in Occidente.

La Mitteleuropa, secondo l’interpretazione prevalente tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900, comprende gli stati attraversati dal Danubio (per cui di parla anche di Eutopa dananubiana e di cultura danubiana) grosso modo collocati tra il Reno e la Vistola, tra il Baltico e i Balcani. Essi sono nell’ordine : Austria, Croazia, Germania, Italia settentrionale  (Friuli -Venezia Giulia), Francia (Alsazia-Lorena), Liechtenstein, Lussemburgo, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia, Ungheria, alcuni aggiungono Romania, Serbia, Ucraina e Russia  (Bielorussia ).

Uno sguardo onnicomprensivo, che si spinge fino alle propaggini europee della Russia ex sovietica è dato nella classificazione di Jerzy Klockzowski (1924-2017), storico polacco cattolico legato a Solidarnosc,  per cui la Mitteleuropa nasce dagli Stati tedeschi del Sacro Romano Impero,  più  quelli costitutivi della Monarchia asburgica, Ungheria  Boemia e confederazione Polacco – Lituana., cui nella visione degli storici russi  si uniscono Ucraina e Bielorussia..

Fondamentale, peraltro,  sull’ argomento è il saggio di Friedrich Naumann (Störmthal, 1860 – Travemünde, 1919 ) Mitteleuropa, pubblicato nel 1915, un secolo e  pochi anni dopo la fine del Sacro Romano Impero, quando l’Europa era impegnata nella rovinosa Grande Guerra e la Germania sembrava a un passo dalla vittoria.

Naumann pensava a un grande progetto geopolitico di riorganizzazione dei territori sottratti alla Russia imperiale.

Ma le cose andarono diversamente e dopo la sconfitta degli Imperi Centrali, la conferenza di Versailles volle risistemare l’Europa centrale in una serie stati di stati cuscinetto per impedire una revanche  tedesca, e peggio ancora,  un contagio della rivoluzione bolscevica.

Benché  impoveriti dalla dissoluzione  del sistema economico danubiano, questi stati  ebbero ancora, fra le due guerre, benessere e tecnologie avanzate, e una vivace vita intellettuale, dovuta anche alla presenza degli intellettuali emigrati dalla Russia dopo la rivoluzione d’Ottobre.. Era pur sempre Mitteleuropa, insomma, anche se con qualche corona in meno. Tutti sappiamo che dopo la fine dell’impero asburgico, il capo dello stato ungherese  dal 1920 al 1944, fu l’ammiiraglio Miklós Horthy de Nagybànya ( Kenderes, 1868 – Estoril, 1957  ) che si fregiava del titolo di reggente e  molti si saranmo chiesti il come  e il perché., trattandosi di un paese senza mare e senza re. La reggenza era infatti in funzione dell’ultimo imperatore d’Asburgo, Carlo II ma IV come re d’Ungheria . Horthy, ammiraglio senza marina, fu un re senza corona. La sua storia meriterebbe la penna di Roth o di Zweig: fu un grande, nonostante qualche penchant autoritario, fu deposto e arrestato dai tedeschi per punirlo di aver tentato la pace separata con i russi. Liberato un anmo dopo dagli americani, nulla risultando a suo carico in materia di crimini di guerra, poté sfuggire all’armata rossa , che sarebbe stata assai meno indulgente, riparando in Portogallo. Anche se non gli riusci di restaurare la monarchia, conservò all’Ungheria l’imprinting di un conservatorismo imperiale, che ancora resiste. Come da lui disposto nel testamento, fu sepolto in patria solo dopo che l’ultimo soldato russo se ne fu andato, il che avvenne nel 1993.

In genere, le nazioni nate dalla dissoluzione degli imperi centrali ondeggiaromo tra regimi di destra e di sinistra. Esempi. Dopo la fine della seconda guerra mondiale,  i partiti comunisti locali entrarono nei governi provvisori e poi presero il sopravvento, con una strategia che anche in Italia fu tentata, ma senza successo, almeno immediato. Ciò  che avvenne, con alterne vicende, in Ungheria , Cecoslovacchia, Polonia, Romania, ecc.non può essere narrato qui, ma è nella storia,  Un triste capitolo,  che dovrebbe essere riletto ogni tanto.

Dopo la seconda Guerra Mondiale l’Europa centrale divenne la parte occidentale del blocco sovietico, comprendente Germania Est, Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Paesi Baltici, e più  a sud Romania e Bulgaria: la parte più  civile e più  oppressa, destinata a generose quanto vane ribellioni e a una silenziosa resistenza,  che ebbe la sua catarsi alla fine degli anni ’80, quando il monolite sovietico implose pressoché senza violenza.

Il baricentro del continente europeo sembrava tornato a Berlino, la capitale ricostituita della Germania riunificata. Le nazioni che erano ad est della nuova Germania smisero di guardare a Mosca e ripresero a considerarsi Europa, riversando speranze e rancori sulle istituzioni comunitarie.

Tra questi paesi si notano affinità nel paesaggio, nella storia e nell’immagine delle città,  e nella tempra dei caratteri umani . Con le stesse modalità e con sacrificio questi popoli hanno difeso i confini europei, sono stati inglobati dal blocco dell’URSS e ne sono usciti, ed ora all’interno della UE alcuni di loro costituiscono un blocco  (gruppo  di Višegrad) che sovente ne contesta le direttive economiche, non per meschinità sovranista, come si vuol dare a credere, ma in nome di un’altra- e più alta- idea di Europa, coltivata e difesa nei lunghi anni della dittatura sovietica.

Chiediamoci perché l’Unione Europea così com’è non ha funzionato. Una possibile risposta è perché ha tradito lo spirito della Mitteleuropa.  Guardando più  lontano nel tempo, vediamo che in primis non ha onorato l’eredità del Sacro Romano Impero,  che a sua volta aveva continuato l’Impero Romano, come Dante ben ci spiega nel De Monarchia.e nel canto sesto del Paradiso. (Stranamente Dante viene considerato un precursore dell’unità nazionale mentre era un acceso reazionario, che vedeva nell’Impero la forma perfetta di governo e negli imperatori tedeschi i legittimi eredi e continuatori degli antichi romani, preferibili come reggitori rispetto all’Italia dei suoi tempi, che egli vedeva lacerata da lotte fra comuni e corrotta nel costume civile).

Non  è forse l’impero romano  la prima intuizione dell’identità culturale del magnifico continente europeo? L’idea tornò a vivere con il Sacro Romano Impero e poi con la monarchia asburgica. La Germania aveva mal sopportato l’impero romano e presto doveva abbandonare il Sacro Romano Impero: due grandi  rifiuti collegati. Tutte le volte che la Germania ha concepito un Impero, esso non ha mai avuto un fondamento né religioso né  umanistico.  È  stato un puro disegno imperialista,  né sacro né romano, e, peggio di tutto, niente affatto europeo. E forse per questo, ipotizziamo, la Germania si muove così male nel contesto comunitario? Ma torniamo ai ricordi scolastici. Come tutti sanno, la battaglia di Teutoburgo, nel 9 a. C., fu una grande sconfitta dei romani. Il confine che si voleva portare all’Elba rimase al Reno e al Danubio per 400 anni, finché Carlo Magno riuscì a spostarlo ad est. Fatto sta che Roma perse  (in parte ) la Germania, ma la Germania perse Roma, e l’Europa perse il beneficio di fondere le virtù civili di entrambi i mondi, che rimasero distinti ed animati da complessi sentimenti di amore ed odio, ammirazione e diffidenza..

Il Sacro Romano Impero, nato, come sappiamo,  dall’eredità  di Carlo Magno,  comprendeva i  domini di Germania e in Italia, tranne la Francia.  Fino alla ribellione luterana fu cattolico ed espresse grandi umanisti. La chiesa cattolica attualmente ha riveduto il suo giudizio su Lutero, che a suo tempo aveva condannato come eretico. Lasciando però da parte la disputa dottrinale, non si può negare la portata politica della Rivoluzione luterana che era contro Roma e contro il diritto romano e l’humanitas in genere.  Invero in Lutero i principi tedeschi videro una chance di indipendenza politica e istituirono la  lega di Smalcalda nel 1531 dando inizio a un moto centrifugo del mondo tedesco rispetto all’Impero, che avrebbe portato da una parte all’ascesa della Prussia con la dinastia Hohenzollern e dall’altra, con la pace di Utrecht del 1648, avrebbe visto le sorti dell’Impero strettamente legate alla dinastia asburgica. Maria Teresa d’Asburgo, sposando Francesc Stefano di Absburgo -Lorena, recuperò il titolo imperiale che rimase alla casa Absburgo fino alla sua fine,  avvenuta nel 1918.

Il Sacro Romano Impero vanta dunque una storia millenaria, che comincia con l’anno 800, con l’incoronazione di Carlo Magno (secondo altri computi dal 962, incoronazione di Ottone I) ; millenaria se lo si considera finito nel 1805, con la sconfitta di Francesco I e il trattato di Presburgo,  a maggior ragione se lo si considera titolo onorifico della dinastia asburgica, obliterato con l’abdicazione di Carlo II: una lunga storia non sempre vittoriosa ma certo dignitosa, che  non starò a raccontare qui.  Nei secoli in cui l’Europa si divideva in più  stati nazionali  aggressivi e sempre pronti a concludere alleanze per poi tradirle, questo complicato e farraginoso sistema fu  un uno strumento altamente simbolico di utopica stabilità,

La sua complessa architettura istituzionale , che comprendeva una Dieta (Reichstag), che a sua volta era formata dal collegio dei  grandi elettori, dal consiglio dei principi, dal sub-collegio dei conti e dei signori  dell’Impero e dal collegio delle libere città imperiali, facente capo all’Imperatore che dalla fine del Medioevo in poi era sempre un Asburgo, ha lasciato forse una  qualche impronta organizzativa all’Unione Europea? Si direbbe . Si direbbe anche che non abbia lasciato una pari eredità in termini ideali.

Ma c’è  di più.

Solo il monarca asburgico poteva fregiarsi del titolo di “Sua Maestà Apostolica”. Il come e il perché  sembra inventato da un romanziere. Il titolo di  “Maestà  Apostolica” fu creato dal papa Silvestro II intorno al 1000 per il re d’Ungheria,  S.Stefano, come riconoscimento per l’aiuto dato alla propagazione del cattolicesimo. Fu rispolverato da Clemente XIII nel 1758 per Maria Teresa, Imperatrice  e Regina d’Ungheria, e Francesco Giuseppe ancora lo portava quando scoppiò la Grande Guerra e il suo successore lo perse insieme al resto. Solo l’imperatore asburgico poteva rivolgersi nei proclami “ai suoi popoli”.  Qui si coglie la grande differenza con la Germania. Il sistema tedesco della confederazione di stati e starerelli aveva pur sempre un carattere nazionale e prettamente tedesco, anzi prussiano, sarebbe a dire tedesco al quadrato, mentre quel mondo asburgico che i tedeschi un po’ snobbavano e che i popoli un tempo soggetti avrebbero apprezzato e rimpianto solo troppo tardi, teneva insieme etnie, nazionalità e culture diverse, raccolte sotto un’autorità che le trascendeva, e le sublimava, anche per un suo proprio carisma religioso.

Quando Napoleone Bonaparte  percorse l’Europa inseguendo il suo sogno imperiale, certamente pensava alla centralità della sua Francia, ma si pose il problema di rimpiazzare il Sacro Romano Impero, che infatti nel 1805 vide anche la propria fine ufficiale.. Non a caso quando Napoleone si fece incoronare imperatore volle rinnovare il cerimoniale  di Carlo Magno; subito dopo sposava  l’arciduchessa Maria Luisa,  la figlia dell’imperatore austriaco  Francesco I, da lui vinto

La missione storica centroeuropea l’avevano capita anche i politici del Congresso di Vienna, che misero ordine dopo Waterloo. (Gli uomini del nostro Risorgimento no, altrimenti avrebbero chiesto Francesco Giuseppe di farsi incoronare a Monza e magari di unificare l’Italia insieme al cognato, re delle due Sicilie ). Ancora era in parte presente, l’idea di questa  Europa centrale sovrana, fedele alle sue radici umanistiche e cristiane, agli statisti ed ai capi di stato che regolavano le sorti del vecchio continente fino alla Grande Guerra. Winston Churchill, che la storia la fece e la raccontò,  nel suo libro “La crisi mondiale “, ritrasse n termini quasi poetici  i’Europa all’inizio del ‘900, in un passo abbastanza noto, che mi piace di citare qui:

“Nazioni e imperi, coronati di principi e di potentati, sorgevano maestosamente da ogni parte, avvolti nei tesori accumulati nei lunghi anni di pace. Tutti si inserivano e si saldavano, senza pericoli apparenti, in un immenso architrave. I due potenti sistemi europei stavano uno di fronte all’altro,  scintillanti e rimbombanti nella loro panoplia, ma con sguardo tranquillo… Il vecchio mondo, nell’ora del suo tramonto, era bello a vedersi.” (Vol 1, p. 107)

Con questa memoria collettiva, sedimentata, come si poteva aspettarsi che dei popoli di grande civiltà, che tornavano in Europa dopo settanta anni di socialismo reale, non rimaneseero delusi?

Parte seconda, ovvero: per un canone letterario mitteleuropeo

Gli scrittori mitteleuropei sono una miriade e tutti, anche i meno noti, sono bravi, anzi eccellenti, nel loro mestiere. Hanno un’arte del narrare che echeggia nel nostro profondo e risveglia  in noi strane sensazioni di dejà vu, anche se ben sappiamo che le nostre radici sono altrove, nel mondo latino mediterraneo, tanto l’evocazione è  potente.

Non si può affrontare questa letteratura senza rendere il dovuto omaggio al nostro Claudo Magris (nato a Trieste nel1939) che ha fatto conoscere ai lettori italiani autori ignorati dalla nostra critica forse per un retaggio storico di antipatia verso il mondo tedesco e slavo, che il compimento dell’Unione Europea ci rendeva più  vicini. Con Il mito asburgico nella letteratura austriaca moderna del 1966 e successivamente con il saggio Danubio del  1986  ha colmato una lacuna culturale. Ovviamente Magris nel suo excursus ubbidiva ai propri criteri di giudizio, e ad esempio privilegiava l’intelligenza geniale rispetto ai valori identitari e “nostalgici”.

Per disegnare un canone letterario non servono giudizi di valore e nemmeno il gusto personale;  parimenti la mera appartenenza territoriale e cronologica non bastano. Chi ama  Musil solitamente si reputa intellettualmente più sofisticato di chi ama Mann, e molti hanno fatto di  Brecht il livre de chevet per la propria formazione negli anni della lotta studentesca, ma non è  questo il punto.

Che cosa davvero occorre per formare la Pleiade di coloro che bene hanno espresso lo spirito della Mitteleuropa ?

Proviamo a distinguere nella miriade degli autori, secondo una mia classificazione, i caustici distruttori dagli eredi rispettosi.

Al primo gruppo si ascrivono senza dubbio : Robert Musil (Klagenfurt 1880 – Ginevra, 1942), Karl Kraus (Jičin 1874 – Vienna, 1936), Franz Kafka ( Praga, 1883 -1883 – Kierling, Klosterneuburg, 1924), Sigmund Freud (Příbor, 1856 – Hampstead, Londra, 1939), Thomas Mann (1875, Lubecca – 1955, Zurigo), Bertolt Brecht( 1898, Augusta – 1956, Berlino Est). Tutti  spiriti brillanti, intelligenze dedicate alla distruzione dei luoghi comuni del perbenismo borghese: che preferisca  sezionatori di psiche o pianificatori e cantori di società future, ogni lettore può  scegliere tra di loro il compagno e il confidente della propria depressione o il mentore di una linea di pensiero. In sostanza Il loro messaggio, sia filosofico sia ideologico, rimane lo stesso: il vecchio mondo doveva finire perché non ci credeva più  nessuno. E dal momento che quel sistema è  effettivamente finito, non c’è  modo di dimostrare il contrario.

Non è  questo lo spirito della Mitteleuropa. La Mitteleuropa che noi intendiamo non è  uno stato d’animo, ma un valore morale identitario, è  la fedeltà – non sempre redditizia – a un retaggio, la capacità di elevarsi stoicamente al di sopra di se stessi per conservare la dignità anche nella sconfitta senza illudersi troppo sul progresso.

Il secondo gruppo, peraltro,  è  più difficile da ravvisare (forse perché gli spiriti liberi non si aggregano volentieri?), ma nel novero metteremo innanzitutto, non in quanto filosofo, ma in quanto scrittore al contempo delizioso e immenso, Friedrich Nietzsche (Rocken, 1844 – Wieimar, 1900), perché  senza di lui ben poco di quel che segue sarebbe stato scritto. Né potrà mancare Rainer Maria Rilke (Praga, 1875 – Montreux, 1926) il grande incantatore,  l’apollineo consolatore, o  Hugo von Hoffmanstahl, ( Vienna, 1874 – Liesing, 1929) scrittore, saggista, poeta e librettista di Richard Strauss, che teorizzava la “rivoluzione conservatrice” come riscossa europea dopo la catastrofe bellica, che morì stroncato da emorragia cerebrale,  mentre si preparava per la cerimonia funebre del figlio suicida.. Fra i narratori  tedeschi metterei come padre nobile il vecchio Theodor Fontane ( Neuruppin, 1819 ‘ Berlino, 1898 ) per la quieta compassione con cui racconta storie d’amore e di rinuncia, sullo sfondo delicato come acquerello di una Prussia che non esiste più, ed Eduard von Keyserling con i suoi malinconici nobili baltici, ignari che nel giro di pochi anni quelle terre feudali sarebbero state inghiottiti dalla Russia bolscevica, e ancora per poco intenti a gustare tramonti impressionisti , a scambiarsi battute in francese e a concludere i propri fallimenti morendo in modi ironici e discreti.

Josef Roth (Brody in Ucraina 1894 – Parigi, 1939) eccelle  per la sua magistrale capacità  di intrecciare saghe familiari alla Finis Austriae,  che della sua narrativa e la vera protagonista, accanto ad Alexander Lernet- Holenia  (Vienna 1897 – 1976) per l’epica militare a tratti esoterica, che sa celare sotto lo schema del romanzo avventuroso, che sfiora il pathos  sublime nel capitolo de Lo stendardo in cui gli ufficiali bruciano le bandiere nella reggia di Schonbrunn dopo l’abdicazione dell’ ultimo Imperatore. Aggiungerei Stefan Zweig ( Vienna, 1881 – Petropolis, Rio de Janeiro, 1942) per”Il Mondo di ieri” il libro del congedo pubblicato postumo nel 1942, per le biografie, per i racconti, i saggi e le poesie.

Stupirà qualcuno l’assenza di Arthur Schnitzler  (Leopoldstadt, 1862 – Vienna 1931) 1931), troppo leggero e cinico per essere  un punto di riferimento, da lasciarsi pertanto agli sceneggiatori cinematografici chr ne hanno fatto largo uso. Parimenti lascerò Hermann Hesse (Calw, 1877- Montagnola, 1962), troppo esoterico e hippy, al godimento degli amici di Nanni Moretti.  Mentre Roth è squisitamente un narratore, Zweig è un letterato completo, che si interroga lucidamente sulla ricaduta della finis Austriae in termini di perdita di umanità.

Non si può  leggere senza un brivido il capitolo di “Momenti fatali” dedicato alla caduta di Costantinopoli in cui si narra ultima messa a Santa Sofia che dopo la conquista è stata trasformata in una moschea. Come non pensare che Zweig avesse in mente anche altro? Ovvero che sotto il velame della storia medioevale volesse profetizzare la fine dell’Europa, che sarebbe seguita alla fine dell’Austria se per una fatale disattenzione ci si fosse dimenticati di chiudere un minimo pertugio (nella narrazione la Kerkaporta da cui entrarono gli arabi)?

Non doveva essergli rimasta la forza di sperare in una ripresa, perché  Come sappiamo, Zweig si diede la morte insirme alla giovane seconda moglie, a Petropolis in Brasile, lasciando scritto in un biglietto a un amico:

”  Abbiamo deciso, uniti nell’amore, di non lasciarci mai”. Una conclusione degna di una delle  sue novelle.

Sensibile e appartato, quasi claustrale, Ernst Wiechert ( Forsthaus Kleinort, ora in Polonia, 1887 – Uerikon 1950) della nostra schiera. Meditando su come il suo paese potesse risollevarsi dopo la sconfitta,direi che sia arrivato a un progetto di vita semplice, rurale, severa,  quasi il versante campestre della “rivoluzione conservatrice” di von Hoffmannstal: una Georgica trasferita nella Prussia orientale.

Ritengo “La Signora”,  romanzo del 1934, un racconto perfetto. Il titolo originale, “Die Majorin”, sarebbe ancora più espressivo, ma intraducibile in italiano, perché  riflette l’uso tedesco antico di attribuire alla moglie il titolo del marito , femminilizzandolo. La signora  del libro dunque è la moglie, in verità la vedova, di un ufficiale caduto nella Grande Guerra: regna e governa le sue terre, dove molti, troppi non hanno fatto ritorno. Dolce e generosa, e ancora affascinante, si è  votata alla solitudine e alla cura degli altri. Un giorno, un soldato creduto motto, ritorna dalla prigionia: è  Un giovane uomo deluso e inasprito, che nessuno vuole accogliere. Il padre, che si era rassegnato alla sua morte, vedendolo vivo, impazzisce. Fra il reduce e la nobile dama potrebbe scattare la scintilla dell’eros, ma lei sceglie di sublimare l’attrazione in un affetto più saldo e sicuro. Gli assegna un pezzo di terra e una notte faccia insieme a lui fino all’alba. Poi sale a cavallo, la Signora gira sempre a cavallo, e torna  nel suo castello.  La sua rinuncua non ha nulla di bigotto, è  pura dignità.

(Mi accade talvolta di pensare che l’Europa avrebbe dovuto ascoltare questi saggi consigli).

Al di fuori della letteratura di lingua tedesca,  raccomando  Ferenc Molnár (Budapest, 1878-New York,  1952 ),  non per “I ragazzi della via Pal “(che pure, se riletto da adulti, rivela qualche sorpresa: quei ragazzi che giocano alla guerra si preparano per la resistenza, ma a quale nemico? Il Kaiser o il Fuhrer o qualcuno con la stella rossa? Il libro racconta di due bande giovanili che si contendono un terreno incolto, su cui alla fine sorgerà un condominio. Nel frattempo il ragazzo più fragile  e puro è morto, e gli altri hanno imparato a vivere:.una storia di lotta, tradimento ed eroismo su cui molti di noi hanno pianto, senza capirla . Poiché fu pubblicata nel 1906, i ragazzi saranno diventati maggiorenni appena in tempo per combattere nella Grande Guerra, ma possiamo imnaginarli insieme ai loro figli sulle barricate del 1955). Voglio invece parlarvi quel gioiello di psicologia reazionaria che è ” Il cigno”. Nato come dramma nel 1920 ma ambientato in un principato di fantasia di prima della guerra, “Il cigno” fu tradotto in film  nel 1956 con Grace Kelly, mai così principesca. È una favola mitteleuropea perfetta in cui alla fine non trionfa l’amore. La bella principessa non sposerà il precettore povero e bello, bensì il bizzarro cugino principe ereditario, ma -e qui sta il bello -non per obbedienza filiale,  ma perché  lui la comprende.

Lascerei in riserva, invece,  Sàndor Màrai (Košice, 1900 – San Diego,  1989): il suo limite è essere un po’  troppo lo scrittore austro – ungarico di cui appropriarsi in assenza di una vera cultura. Ma se volete leggerlo, male non vi farà. (Piaceva anche a Massimo D’Alema, e certamente sarà stata  tra le sue letture quella che lo ha reso migliore).

Come ho detto, gli autori di questo periodo sono in genere affascinanti, taluni in modo eccelso. Ho consigliato solo quelli che ho effettivamente letti.

Non per pedanteria, amico lettore, nel tracciare le coordinata di questa vera e propria  “terra di mezzo”,  ho indugiato su date e luoghi di nascita e morte, ma per mostrare la contiguità spazio-temporale degli scrittori, quasi che fossero abitanti di un distretto letterario destinati a sfiorarsi e incrociarsi. In più questi dettagli biografici contengono in sintesi il romanzo delle loro vite e la tragedia della grande storia, se pensiamo  che il paese natale sovente appartiene a uno stato che non esiste più, è  il caso di Roth, e il luogo della morte è  talvolta quello dell’esilio, come per Zweig. Solo Brecht, nascendo ad Augusta e morendo a Berlino Est,  si conferma un monolite sovietico, pesante come la sua scrittura. Mi sembra che solo Lernet-Holenia, nato e morto a Vienna, quasi indifferente al divenire storico nella sua eleganza aristocratica, sia il monumento a lui simmetrico.

Per concludere in leggerezza, inserirei nel canone, se fosse stato uno scrittore invece che un regista, il magnifico Ernst Lubitsch ( Berlino, 1892 – Hollywood, 1947), per quel famoso tocco che rende i suoi film adorabili e conferisce alle sue storie un’amarezza venata di umorismo, o un umorismo velato di tenerezza, come a trasferire la letteratura mitteleuropea sul riquadro bianco e nero dello schermo, illuminato da presenze uomini e donne di una classe e di una bellezza ormai inattingibili e inconcepibili .

Un grande narratore, a modo suo, dello spirito mitteleuropeo.

Conclusione, ovvero: In medio stat virtus

Con la seconda guerra mondiale e la formazione dei blocchi, il centro del Vecchio Continente si è  spostato a Occidente, mentre la Mitteleuropa è  diventata l’Occidente di una superpotenza che aveva il suo centro ad est, e la sua capitale a Mosca, una ex- città santa, chiamata Terza Roma” dall’antica religione, al centro della quale nella Piazza  Rossa, sotto le cupole del Kremlino, folle ipnotizzate adoravano la mummia di Lenin.

Questo Impero, che si protendeva in tutti i continenti per conquistarli con la propaganda o il terrorismo, non era più europeo, ma asiatico,  benché i suoi sovrani illuminati nei secoli precedenti avessero operato affinché gravitasse verso l’Europa.  Pietro Il Grande non aveva forse costruito San Pietroburgo nelle desolate paludi che si affacciano  sul Golfo di Botnia e non aveva chiamato architetti italiani ad ornarla di palazzi classicheggianti perché fosse un balcone incomparabile sull’Europa? E la Grande Caterina non aveva scritto nella costituzione ( Nakaz )che la Russia era una nazione europea? Vista da Mosca, la nuova capitale voluta da Lenin, l’Europa era lontana davvero, e lontana rimase per settanta anni. Il centro dell’Occidente divenne l’ Occidente dell’Oriente, il suo mesto tramonto.

Se intendiamo poi l’Occidente in senso lato, la Mitteleuropa deve tornare ad essere l’Oriente dell’Occidente, la sua alba sapienziale.

Rimettere la Mitteleuropa  al posto dove deve stare farà sì che l’Europa sia quella che deve essere., sottraendola alla guida Francia e  Germania, una coppia contro natura di nazioni storicamente rivali, che non hanno onorato né l’eredità dell’Impero Romano né quella del Sacro Romano Impero, la prima aveva già  perduto la sua anima cattolica per effetto dell’Illuminismo e della Rivoluzione, la seconda si è snaturata con una catena di errori storici di cui il  nazionalsocialismo è  l’ultimo funereo anello ma che comincia con il tradimento di Teutoburgo e continua con l’eresia di Lutero e con l’espansionimo del Reich prussiano che sconvolse l’armonia del vecchio continente ma prima ancora quella di un’altra Germania, quella dei principati, delle università, delle città fatte di palazzi delicatamente ornati raccolti intorno a un antico Duomo, una Germania che non c’era già  più  quando tuonarono i cannoni dell’agosto 1914 e che possiamo incontrare solo nel mondo della letteratura..

Francia e Germania, purdando -e chiedendo- tanto all’Europa unita, hanno volutamente oscurato il sogno di un perduto regno cristiano.

Non si può rivendicare una così importante missione storica senza onorare il retaggio che la giustifica.

Marisha Paulay

Budapest
Budapest   Ostrava, Repubblica Ceca, già  capitale della Moravia-Slesia austriaca  
    Leopoli, capitale della Galizia austriaca, ora Lviv in Ucraina  
Brody, Galizia austroungarica, ora Ucraina. Il liceo dove studiò Josef Roth   
Rovine della fortezza austroungarica di Przemysl, in  Galizia, ora Ucraina, conquistata e poi persa dai Russi nel 1915..Era la maggiore piazzaforte dell’esercito austroungarico.   
Assedio di Przemysl, stampa d’epoca..Tra le battaglie della Grande  Guerra fu uno degli episodi più strazianti per il numero delle vittime e perché entrambi gli imperi, nonché  i rispettivi sovrani, non uscirono vivi dal conflitto.     
Palazzo Vorontzov.
Palazzo Vorontzov, particolare.
 Palazzo Potocki  
 Il teatro dell’opera  
Il monumento a Caterina II, cartolina d’epoca

Selezione a cura di M. P.

Alessandro D’Agostini racconta un aneddoto di D’Annunzio e Trilussa passeggiando a villa Pamphili . Forse ispirato dagli “Stati generali”? 

Piccola poesia di Trilussa

La lucciola

La Luna piena minchionò la Lucciola:
– Sarà l’effetto de l’economia,
ma quer lume che porti è deboluccio…
– Si – disse quella – ma la luce è mia!Piccolo commento del sottoscritto.Ricordiamoci che anche in questo triste periodo abbiamo una luce, preziosissima, vale tanto che potrebbero toglierla. Non facciamocela rubare, non facciamocela spegnere, è nostra ed è preziosa, è la sopravvivenza.   L’accoppiamento dei due personaggi non è solito proporlo, sono sempre ricordati separatamente, qui sotto una rara volta che sono stati presentati insieme nella città di Albano Laziale nel 2017.

manifesto di una manifestazione ad Albano nel 2017

Villa Petacci, distrutta da una ristrutturazione totale, vista nel suo progetto originale potrebbe rappresentare un’ipotesi di corso del razionalismo che poi, stranamente, non c’è stato. Per chi vuole capire meglio e conoscere virtualmente la villa sono disponibili questi link :

https://web.uniroma1.it/qart/una-visita-alla-villa-petacci-del-generale-giacomo-carboni-15-luglio-1943/una-visita-alla-villa

https://patrimonio.archivioluce.com/luce-web/detail/IL4000067273/7/la-casa-sulla-camilluccia-della-famiglia-petacci-matrimonio-miriam-petacci-roma.html?startPage=0

su  Luccichenti e Monaco https://www.artribune.com/progettazione/architettura/2019/11/ugo-amedeo-luccichenti-storia-italia/

Inserirò altre realizzazioni architettoniche che hanno caratterizzato lo sviluppo che, secondo me, non c’è stato.